PETRELLA, UN CLASSICO-ANTICLASSICO: LIBERAZIONE, DA OCCIDENTE A ORIENTE.

 



È lecito domandarsi se, nel mondo contemporaneo, nella New York innevata evocata in questi versi che il Petrella ci propone, ci sia ancora spazio per la poetica, per il cantare in versi, che sfugga alla concinnitas del presente, a quell’attimo che mai si assolutizza e che fugge via come temporalità ignorante dell’eterno. La domanda potrebbe rivolgersi anche su stessa, e chiedersi se, oggi, tra l’asfalto urbano, è possibile soffermarsi nel leggere una poesia autoreferenziale come la sua, che non chiede altro che elevare il singolo nella dimensione del sogno, nella comprensione del messaggio filosofico. Può esistere nel presente, un legame con un passato arcaico e arcadico? In quale luogo questa ambizione può riprendere forma e vigore? La risposta è alquanto semplice: proprio nella poesia.

La poesia è in primis un atto creativo, che genera mondi, o li riporta in vita. Mondi, in effetti. Sembra rivedere nei versi una teoria dapprima neoplatonica, che poi sfocia nell’epicureismo: mondi e intermundi di dèi assenti o inesistenti, tuttalpiù crudeli, un movimento meccanicista, un clinamen che sembra spingere l’intera poetica verso il basso, in una sorta di catabasi di cui Orfeo, suo simbolo per eccellenza, diviene raffigurazione convenzionale e anticonvenzionale, come spettro e presenza reale.

La poesia, tuttavia, è anche musica, e questa catabasi viene volutamente rappresentata come un movimento musicale, sia per l’impostazione della prima parte, quanto per la tendenza che i versi stessi esprimono: le parole si adagiano all’intero corpus, come un peplo (elemento ricorrente) che si adagia sul corpo algido e spesso sottilmente invocato e evocato della donna amata, accompagnate dal suono di una lira che sembra richiamare, insieme agli elementi naturali a cui spesso è associata, una nuova speranza e una nuova vita. Introduciamo allora così il nucleo centrale di questa poetica spesso ostica, che rivela se stessa in un trobar clus, a volte incomprensibile se non trattato con una certa cura e con l’attenzione dovuta. È un poetare lontano dal sentito comune, e che trova la sua legittimazione nello spazio del classico, o del neoclassico, come l’esergo alla prima lirica, di Foscolo, sembra volerci indurre a pensare.

Il viaggio del poeta, a immaginare, a sognare (e la dimensione onirica sembra essere l’unico modo per inseguire l’eterno e la felicità, nello spazio di dolore e noia rappresentato dalla quotidiana materialità), nell’attimo concesso dal respiro della figura della donna amata, è, tuttavia, abbastanza evidente, tanto che, come Dante, è accompagnato da numi tutelari, quali Catone il Censore, qui più contrario all’amore carnale, quasi araldo dell’immaginario poetico cortese, il Bernini e Luigi XIV, con una bella presentazione: L’Etat, c’est moi. Tutti questi personaggi, d’altra parte, rimandano al primo dei colori che queste liriche evocano: il bianco. Un bianco candido e neoclassico, che porta la lirica direttamente in un Peloponneso greco del III secolo, indicato attraverso il mito che, sempre presente, riprende l’ideale platonico. Sembra infatti, nel caleidoscopio di sensazioni scaturite dal verso, guida sicura e utile alla comprensione del testo nella sua totalità. E il mito si intesse con la scienza dell’uomo nel tempo, la storia, con i personaggi già menzionati, oltre ad altri che affiorano successivamente dalle pagine, dei quali quasi mai si fa menzione diretta, ma con colte e raffinate perifrasi si indica senza poter cadere in fallo.

Nel sogno, d’altra parte, non c’è alcuna differenza: mito e storia possono convivere sullo stesso piano, senza rischiare di stridere. E questa poesia è narrazione, per quanto a volte oscura e mistagogica, come la storia, del cammino, di una strada percorsa nel tempo e nello spazio per trasfigurare, a differenza dell’opera massima di retorica, la storia stessa, nell’onirico. È una necessità di cantare, quella del Petrella, che ben si evince in una lirica sofferta, che sembra strappata via dal profondo dell’animo, per dibattersi sulla spiaggia della nostra epoca, come pesce fuor d’acqua il quale, tuttavia, sembra iniziare ad adattarsi all’ambiente dapprima ostile. Una necessità che si lega a un forte richiamo alla filosofia, che meglio può essere compresa con il miele dolce della poesia, e che può essere assimilata, dopo un’attenta analisi del verso, quasi ad un ingresso a un mondo misterico ed esoterico verso la verità che si cela dietro le figure che si delineano, snelle, tra i versi, che siano esse femminine, naturali, o astrali. D’altronde, si nota con il proseguire dell’opera, che il reale diventa illusorio e inconoscibile, nonostante la trasmissione del messaggio filosofico.

Allora, ritorniamo a questo cammino verso Amore. Questo muove da una mancanza, d’altra parte Eros è figlio anche di Poros. Ogni ricordo, tuttavia, appare inutile, anzi dannoso in quanto fonte di dolore, a cui viene contrapposta la dimensione beatifica del sogno. E il sogno, in un movimento a Oriente, verso una solarità mistica, è sempre più forte, man mano che ci si addentra nell’oscura discesa verso Proserpina. E qui, un momento di meraviglia: in toni così classici, in cui Atum, dio egizio della creazione, fa da contraltare a un Occidente disilluso, che troviamo menzionata Osaka. E senza sfigurare, accordandosi bene con le forme sinuose e allo stesso tempo tenui su cui il Petrella lavora di lima, riportando l’ordinario, il contemporaneo a doversi misurare e confrontare con il classico, riportando un occidente razionale a doversi rispecchiare nella visione orientalista che abbiamo del Sol Levante.

D’altro canto, il rapporto con il classico viene espresso anche con la tematica dello sguardo. Sembra di rivedere, con le giuste e dovute proporzioni, quella tematica che sin da Properzio e le sue elegie erompe lo spazio di una letteratura che, come la nostra opera, è cammino nel tempo e che, nella ripresa di un’Archia di cui poco si conosce se non la difesa che ne fece Cicerone (la storia come opera di retorica massima, è proprio una sua constatazione, e per questo prima lo abbiamo ricordato), la poesia si intuisce essere una delle poche vie per cristallizzare nell’eternità un ricordo, al di là del vuoto riferimento simbolico che può rappresentare il linguaggio. Sembra un contrasto ideologico, tuttavia in primis questa opera si nutre di contrasti, in secondo luogo l’uso della parola, spesso molto legato alla sua fonetica e meno al significato,  eternizza il canto come segno, come contenuto razionalmente desumibile.

E l’opera, almeno inizialmente, è una discesa verso l’Erebo, verso una Persefone, evocata dapprima fugacemente e poi diventata oggetto di una delle sezioni dei libri in cui è divisa l’opera stessa. Questa discesa, negli Inferi e nella disperazione, è accompagnata dal vivificarsi dei colori, che iniziano a incamminarsi verso un viola e un rosso sempre più presenti, nel ricordo, nello sguardo che evoca una nostalgia che sembra richiamare ancora una volta il neoplatonismo, un ritorno ad una Unità indistinta iniziale, a un infinito, o forse a un richiamo al mito degli androgini. L’Uno, d’altra parte, non è perseguito in maniera razionale, attraverso il linguaggio, ma attraverso una estasi mistica che la poetica, linguaggio infantile del mondo, sembra richiamare.

Con l’implosione della tematica centrale, si apre una voragine che conduce al centro della narrazione, a un uomo caduco e mutevole a cui si contrappone una natura rigogliosa, spesso rappresentata dalle api, sintomo di una età dell’oro melliflua di virgiliana ascendenza. La forma classica, in effetti, nutrita di grecità, ritorna anche in una romanitas, richiamata in numerosi personaggi. Ad ogni modo, da questo classicismo sembra quasi accedere a forme romantiche e preromantiche, alla vampira dei sogni, al trionfare dell’oscuro nell’assenza del ricordo, ormai travolti da un amore deluso e disilluso. Il medioevo, d’altra parte, non sembra venir meno, con i rimandi a Cino da Pistoia, e al Fibonacci. E questa visione oscura, riprende a piene mani dal medievalismo magico ottocentesco, sembrano insinuarsi definizioni che avremmo potuto leggere in Walpole, più che in Virgilio.

La palpabile avanzata del romanticismo, con uno scenario che vuole conformarsi allo stato emotivo da voler comunicare, è ben evidente nell’incarnato (termine che ora trova anche uno spazio e che noi riprendiamo senza esitare), della donna. Dal peplo quasi immobile e algido iniziale, i colori si accendono nel rosso dei capelli delle figure di Dante Gabriel Rossetti, nella crudele bellezza della sua Proserpina. Eccola, l’abbiamo ritrovata. Nessun salto è casuale, il rimando è sempre preciso e finemente consegnato alla carta, sintomo di un autore conscio di voler comunicare un’opera organica, e non una silloge fine a se stessa e con riferimenti di cui si fa inutile sfoggio. E in questa organicità, come un fiume sotterraneo, scorrono le tematiche principali, le quali esondano per impadronirsi dei versi in vari punti, ora con violenza e straripando, ora dilagando docilmente nella piana calma. Allora il sogno di bellezza, lo sguardo dell’amata e di una probabile età dell’oro, oltre le convenzioni strette della lingua di cui anche la poesia fa parte, erompono argini predefiniti. Il pensiero si fa vivo, esplicito, ma mai materico: l’uomo è prigioniero delle categorie, dello spazio e, soprattutto, del tempo, e solo la capacità di immaginare e di sognare lo salva, lo libera dalle contingenze dell’hic et nunc. I paesaggi sepolcrali, ancora presenti, però, non vengono abbandonati, in quanto a cambiare non è una realtà comunque presente e inconoscibile nel suo essere, ma è lo sguardo(!), capace di cogliere ora i fiori, uno degli elementi che donano ora colore, ora fragilità, ora morbidezza alle immagini evocate, che saranno sempre più numerosi delle lapidi.

Come già affermato, tuttavia, niente viene lasciato al caso. Sarebbe difficile immaginare di poter parlare di quest’opera riducendola in compartimenti stagni, non comunicanti o, peggio, come atti fini a se stessi, senza alcuna valenza oltre la carta stampata e il sollazzo di alcuni minuti. L’unico modo per procedere sicuri nella sua analisi e con essa nell’analisi di significati e stile che il Petrella ci vuole comunicare è discendere con lui negli Inferi di Orfeo, procedendo nello stesso identico cammino. Come lui dobbiamo innalzare il nostro inno a Mnemosine, musa della Storia, a cui naturalmente l’autore stesso sembra tendere; dobbiamo ricordare in maniera graduale, seguendo un percorso maieutico ben determinato.

In effetti, a conclusione del Libro Primo, e la divisone in libri sembra essere un grande indizio della classicità rivista e rivisitata che ci è stata proposta sin dalle prime battute, tutto ciò che era solo sguardo o solo intenzione sembra assumere una forma ben determinata nel corpo dell’Amata, nella veste che svela e disvela il corpo. Questo disvelarsi, richiama subito il concetto di verità più volte dibattuto. Non è solo forma senza essenza, questa poetica, e neppure il contrario. Il fondo teorico è sempre presente, e nel disvelarsi delle forme a noi, intuiamo come la donna possa essere simbolo di verità, oltre che di angelica e allo stesso luciferina presenza, capace di beatificare nel sogno del ritorno e di indurre alla follia nell’oblio conseguente al doloroso ricordo. Non è per nulla semplice districarsi tra gli scenari creati dal poeta, che sempre tende a rendere vivido il contrasto, la disperazione e l’anelito alla salvazione, nella sua composizione.

Questa materialità disvelata sembra richiamarsi anche alla collocazione geografica, oltre che temporale. Sembra abbandonarsi l’arcadico sollazzo, per tornare a una cruda materialità, non fosse che tutta la realtà è messa in discussione. E questo ben si armonizza, rispettando parametri logici e di coerenza testuale che una simile costruzione deve necessariamente rispettare, con la presenza di un Tacito, che sembra prendere il sopravvento rispetto alle guide annunciate all’inizio, ma che è solo una conclusione degna prima dell’avviso al lettore del Libro Secondo: chi troppo legato alla ragionevolezza, abbandoni questa poesia, che già abbiamo definito estatica.

Qui dobbiamo necessariamente soffermarci. La poetica di questo testo, oscura, spesso inaccessibile è un limite in sé alla fruizione del testo. Questa caratteristica, d’altro canto, non è necessariamente negativa, in quanto già la prima parte del testo è riservata ad un pubblico che il Petrella già indicizza dai primi versi. Non sarà complesso per l’amante delle antiche lettere seguire i suoi discorsi, i suoi voli pindarici tra filosofia e storia, tuttavia ardua sarà la lettura per chiunque non abbia una solida preparazione classica. Questo discrimine, d’altra parte, ben è evidenziato dallo stesso poeta, concreto e concorde al suo ideale anche nel poetare. Allora l’avviso del Libro Secondo è chiaro: chi è di estrema razionalità non si inoltri ancora tra le pagine, e lasci a chi, deciso a essere rapito da un estatico ed “eroico” furore, possa comprendere in toto l’opera. E nonostante l’elemento apollineo è ben presente sin dall’inizio, questa estasi dionisiaca si addentra con il lettore verso una complicazione del verso, in un giocare con i significati e i significanti, concesso solo a chi della parola è conoscitore.

Non si prenda la posizione dell’autore come antidemocratica, non è una differenza netta quella tra gli uomini. Semplicemente, ognuno ha la sua inclinazione naturale, come la propria è riconosciuta nella storia: è Catone, uno dei tre numi tutelari di questo viaggio, a domandare il perché di questa fascinazione. Ancora una volta, il latino è una guida infallibile, disegnato in tratti propri, che bel lo differenziano dal meno austero Archia, o da Tacito. Inoltre, questo ritorno è sicuramente gradito. Si poteva ipotizzare che, il riferimento a lui, al Bernini e a Luigi XIV di Francia, il Re Sole (e quante volte la metafora solare e cosmica è utilizzata?), fosse vago e vuoto sfoggio di cultura la quale, seppur presente, sarebbe stata fine a se stessa. Il ritrovarli tutti e tre, invece, ci fa abbandonare questo pregiudizio, per indirizzare la valutazione dell’opera all’insegna di una positività data anche e soprattutto dalla coerenza dei rimandi interni. Coerenza anche nel delineare i discorsi dei vari personaggi, come Catone ancora censore del vizio e che parla delle tappe dell’incivilimento umano, un Rousseau ante litteram, o come la stessa lirica che ce lo propone che inizia a spaziare tra le epoche, facendo risalire dalle nebbie del tempo anche l’Età Media, nella figura di Carlo d’Angiò, mentre si parla di romanitas, andando ad appiattire il Tempo in un continuo presente nella dimensione del sogno, unico rifugio al tempo lineare e crudelmente inarrestabile della realtà.

La compagnia del Bernini, così come quella del Re Sole, ritorna anche in questo passaggio, con un nuovo riferimento platonico al demiurgo, compito assunto, tuttavia, e dallo scrittore e dallo scultore, che danno forma all’intuizione del vero, nella sua differenza della realtà. Sembra che qui i versi ci comunichino Hegel, la sua visione dell’arte, capovolgendo, anzi, appiattendo su un piano “democratico” la gerarchia delle arti del filosofo tedesco. L’autore, nutrito di filosofia, tuttavia dimostra ancora il suo stretto legame con la storia, con il tema della costruzione della memoria, la quale si ricollega sicuramente ai grandi lavori sulla selezione della memoria, così cari ai medievisti. Eppure, il richiamo erudito, è sempre diluito e addolcito da una poesia cromatica, che assume dapprima il colore del bianco candido e naturale, dei cigni e delle perle che circondano la donna, per poi sprofondare un viola, innaturale dei capelli della stessa. È una poesia, come detto, che vive di contrasti, anche cromatici.

Se dal punto di vista dell’appassionato di storia è lampante la tematica della costruzione della memoria, sarà ancor più lieta la costruzione di una genealogia immaginaria, che riconnette Luigi XIV (altro Penato, nume tutelare del Poeta) a un Meroveo, divo barbarico, a Pipino, Carlo Martello e Carlo Magno in primis. Notiamo un piacevole uso di medievismi, e una coraggiosa similitudine tra i Titani che scalano l’Olimpo, e  i “Saraceni” a Poiters. Ciò che interessa l’autore, non è comunicare la realtà storica, ma il suo vero verso il pubblico, che carpisca e riporti alla propria esperienza e conoscenza il riferimento. E anche il Re Sole, è sfruttato per comunicare un significato filosofico: l’uomo percepisce tramite i sensi, ma la sua ragione sembra scavallare le dune del sensibile, per amore delle idee. E tutto questo è espresso con un altrettanto pluralis maestatis, a rendere regale il discorso del re. Sottolineiamo tutto questo, d’altronde, non per seguire pedissequamente la distribuzione della materia, quanto per sottolineare una padronanza di forme ed espressioni, nonché di regimi linguistici, vari dell’autore, che gioca da un endecasillabo classico, a varie forme ritmiche, anche delle più inusuali.

Il distacco dai numi tutelari sembra approntarsi, tuttavia, in riferimenti sempre più vicini alla quotidianità, sebbene la stessa venga intessuta di materiale leggendario, poetico, o mitologico. Allora nel suo testamento ribadisce, quasi come una ossessione, il fulcro centrale intorno al quale sembra orbitare tutta la galassia scrittoria: la crudeltà del tempo e il dolore della vita mortale, a cui porre rimedio con il canto, traccia sensibile ed eterea, capace di evocare il ricordo come uno scavo archeologico, come una indizio del tempo che fu. Allora anche i riferimenti spaziali, sembrano condurre in realtà a un escamotage per descrivere ancora alla filosofia, al classico, almeno finché l’autore non ci conduce per mano nel cimitero di Pere Lachaise. Qui, il riferimento mantiene il suo carattere filosofico, in una prosa spesso voluttuosa e volubile, capace di circondare e immergere il lettore come in un universo nebbioso. Ed è il prosimetro, allora, ad allontanare bruscamente dal classico, con il richiamo al lutto e ai personaggi oscuri dei racconti sepolcrali ottocenteschi.

Il pesante drappo che sembra condannare la poesia, e nel verso e nel contenuto e nello scivolamento verso la disperazione, tuttavia, sembra essere rimosso con superba grazia nei componimenti di dedica, al senso ritrovato alla vita umana attraverso una compagnia felina che, all’apparenza effimera, sembra richiamare nella sua vacuità un senso alla vita. Eppure la classicità ha subito il colpo (tanto che il ritorno successivo al prosimetro, sempre anzi più largamente presente, sembrerà una sorta di presa di posizione in un movimento di affermazione), e lo dimostra la dedica a re Totila. Non sicuramente il primo barbaro chiamato alla nostra memoria, considerando la presenza di Liutprando, ma altrettanto sicuramente il primo a essere protagonista, con quello slancio mortale che richiama dalla tomba alla tomba stessa. Il re ostrogoto è immortalato a Gualdo Tadino, nell’ultima rovinosa battaglia dei suoi, come fulgido esempio di tensione verso la morte.

Eppure, in un gioco di specchi, di contrasti, si ritorna poi all’oggetto semplice, alla veste, nuovamente richiamata con lo stesso componimento precedente. In effetti, questa tensione espressiva riportata dall’autore, sembra richiamare un movimento al ritorno, al ritorno quasi infinito, in cui la fissità di un cammino determinato viene annullata e, anzi, frantumata, in richiami ossessivi a nuclei fondamentali, a passaggi che tendono a esprimersi, addirittura, nelle stesse parole. Abbiamo considerato il riproporre lo stesso identico componimento in questo senso, in un ritorno a ciò che tormenta il poeta, al di là del divertissement ricercato nel verso storico e epico.

La vera e propria eruzione della prosa, che divora lo spazio poetico in maniera sempre più frequente, ha quasi valore gnoseologico, spiegando, attraverso metafore, l’universo di pensiero che si cela nel verso del Petrella. Potremmo quasi definire il movimento verso la prosa, una uscita dal cono d’ombra dell’esoterico, in favore di un essoterico, di un reale e palpabile. Questa realtà è ritrovata non tanto nella determinazione del tempo, a cui egli stesso tenta di sfuggire, quanto in quella dello spazio di una Roma amata, dai giardini di Villa Borghese e i richiami a Renoir che rappresenta uno spazio quanto reale quanto simbolico dove l’Amore tanto cantato viene sublimato e coronato dal bacio all’amata, al Tevere e al tempio di Pontino. Non dimentichiamo che ciò che l’autore disegna con i suoi versi è sempre un mondo di rimandi interni, in cui anche i luoghi conosciuti sono raffigurazioni, richiami, collegamento a un universo immaginario e immaginifico di dèi e mito, di filosofia e storia. Intraprendiamo con lui un cammino di liberazione dall’elemento ossessivo della donna, che si attua solo nella realizzazione fisica dell’amata, ritornata rossettiniana, quando Amore perde la sua straordinarietà, rientrando nell’abitudine dettata dalla presenza oscura e malevola del tempo. La donna perde quasi la sua centralità, la morte non è più angoscia, ma libertà. Eppure l’autore non tradisce mai quanto affermato precedentemente, i suoi classicismi rivisitati, i suoi “sospiri”, che più che di “Amor Cortese”, hanno la stessa valenza che in Properzio.

Allora l’amore è demistificato, è egoismo incurante del tempo e del dolore. Il paesaggio diventa invernale, dalla primavera spesso sentita e respirata nei versi iniziali, abbandonando l’orrida “realtà”, nient’altro che costruzione intellettuale. Stride il comunicare in prosa che sia la poesia, attraverso il desiderio, il bello e la percezione immediata oltre il sensibile, l’unico modo per accedere all’eternità. La poesia, più che il poeta, caduto, ha valore magico in Petrella, aiuta l’uomo ad andare oltre la sfera della razionalità imposta dalla sensibilità, perché, attenzione, anche la poesia possiede razionalità, ma una razionalità del tutto propria, che si discosta dal modello classico, e che potremmo definire occidentale.

L’esplosione del modello, la caduta della ragione imposta, sembra prendere corpo nella classica visione dell’Oriente che si ha in Europa. Il misticismo orientale è rigettare Caravaggio, per abbracciare Sesshu Toyo. Ed è questo il viaggio ad Oriente del nostro titolo, questa liberazione che procede in un Oceano senza tempo, luogo del rifugio dal doloroso ricordo. Non esiste il tempo, non esiste la vera conoscenza al di là del pensiero, non esiste libertà se non liberi dai nostri schematismi mentali, per abbracciare Amaterasu. È questo che pare comunicare il poeta, forzando con lodi che echeggiano di Occidente verso divinità del Sol Levante, verso atmosfere, più che orientali, orientalistiche. Del resto, mai lo sguardo del poeta si ferma su una mollezza asiatica in senso negativo, come lo spirito guida di Catone potrebbe suggerire. È una mollezza, sì, ma lo è in senso assolutamente positivo: accettazione placida del divenire e del destino, un annuncio di eternità nella fragilità, una coincidentia oppositorum. Un volgere lo sguardo altrove si rintraccia nelle ultime pagine, in cui la poesia conclude: “[…]/ il tempo viene distrutto con le tombe”. Morte e liberazione dalla tirannia del sensibile, non si ritorna dall’Inferno, Orfeo è ritornato allo stretto ambito letterario, la donna amata, nonostante una dedica finale, a uno spazio intangibile che non può scalfire una nuova atarassia.

Per concludere, ci pare che il Petrella sappia mescere consapevolmente forme estremamente classiche e novità. La conoscenza del mezzo espressivo gli consente di erompere dall’interno gli schemi classici, minando la struttura poetica, che esploderà nella prosa, senza che il lettore sappia rendersene conto. È un fine ammaliatore, con testi spesso velati di profondo mistero, dove la sonorità precede e domina la logica anche formale, dove il senso è ben oltre il significato, e sicuramente lontanissimo dal significante. Eppure, nonostante la sua valutazione, la parola è importante, è usata con raziocinio e con estremo tecnicismo. È una poesia colta, che racchiude studi che spaziano dalla filosofia, alla storia alla musica, con riferimenti ricercati e spesso lontani dalla maggior parte del pubblico. Eppure, questa poetica si può considerare per tutti e per nessuno. Nessuno, in effetti, sarebbe in grado di leggere il senso profondo di queste liriche altamente personali, e tutti sarebbero in grado di farsi affascinare, seguendo il cammino contrario al Sole, e dunque ad Apollo, dai suoi versi. È una poesia che abbandona il canto libero e spesso scriteriato; è, al contrario, ragionata e spesso artificiosa, forzata espressione di un vero che, probabilmente, è precluso alla conoscenza. L’ideale filosofico che sembra trasparire dalle pagine è in perfetta coerenza con lo stile. Può non incontrare il gusto estetico, in questa Babele contemporanea, in questa New York (ritorniamo da dove abbiamo iniziato) gelata nel profondo dell’anima, tuttavia è una poetica che non può non essere apprezzata. Con Petrella sembra possibile ridare uno spazio alla poesia mistica, sembra potersi affacciare, tra i fori di un tronco d’albero dove carpire i raggi solari (immagine tratta direttamente dall’autore, e che utilizziamo con estremo piacere), una emozionalità ricercata e quasi manierata, in contrasto con la poetica svilente del nostro tempo. Affrettiamoci, raggiungiamo con lui l’Oriente delle nostre sensazioni, rapiti da Apollo e ammaliati da Dioniso.

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