Recensione "I fiori blu" di Raymond Queneau




Titolo: I fiori blu
Autore: Raymond Queneau
Data di Pubblicazione: 1965
Editore: Einaudi


Per trovare questi nostri “fiori blu”, nel tempo e nello spazio della Santa Francia e della sua capitale Parigi, dobbiamo metterci subito in cammino, senza preamboli. Dobbiamo affrettarci! Fortunatamente, incontreremo sulla nostra strada dei personaggi pressoché indimenticabili, e altrettanto fortunatamente gran parte del viaggio lo affronteremo sul dorso del buon Demostene o del più taciturno Stéphane, due cavalli parlanti, ed incredibilmente arguti.

“È un cavallo che parla, è vero, - egli continuò - sa anche leggere. Adesso per esempio sta leggendo il “Viaggio Del Giovane Anacarsi In Grecia”, e gli piace”

Così descrive il suo buon Sten, il suo proprietario, il Duca d’Auge, pronto a porsi al nostro fianco sulla nostra strada (e noi al suo), dal suo castello.

 “Il Duca d'Auge sospirò pur senza interrompere l'attento esame di quei fenomeni consunti.
Gli Unni cucinavano bistecche alla tartara, i Gaulois fumavano gitanes, i Romani disegnavano greche, i Franchi suonavano lire, i Saracineschi chiudevano persiane. I normanni bevevan calvadòs.”

Dalla mirabile traduzione di un grande letterato come Italo Calvino, di cui avremo tempo di accennare anche per la localizzazione (con battute del tipo “Il diavolo fa le pentole e non i Copernichi”), facciamoci trascinare da questa famosa introduzione costruita su colembours, seguendo il viaggio del nostro Duca in una storia, che si snoda dal 1264 al 1964, con salti di 175 anni, tra un’epoca e l’altra. Quindi dai rifiuti quasi antimilitaristi alle imprese del re santo Luigi IX (il famoso San Luigi dei Francesi), passando per i suoi nuovi cannoni del 1439, all’incontro con l’alchimista Timoleo Timolei nel 1614 fino alla rivoluzione francese del 1789, arriveremo alla Parigi del 1964.
Non è affatto un percorso lineare, quello che ci troveremo ad affrontare, fatto di preziosismi e giochi di parole, di “campo di campisti per campinghe” (capirete solo se avrete l’ardire di perdervi tra i costrutti fuori da ogni convenzione di Queneau), di giovani ragazze canadesi nella Francia Medievale. E non lo è anche per la storia parallela sviluppata, e contornata da un disincanta umorismo, dell’altro personaggio, Cidrolin.
Peccato che entrambi, sembrino l’uno il sogno dell’altro. Per quanto paradossali le avventure del conte D’Auge, quelle del nostro Cidrolin, abitante di una chiatta sulla Senna, impegnato solo a bere essenza di finocchio, visitare il custode del “campo di campisti per campinghe” e a rimuovere scritte ingiuriose contro la sua persona, sulla staccionata che, sulla terra ferma, precede la sua abitazione galleggiante, sembrano essere poste in un limbo di illogicità perlomeno pari a quelle del nobile e dei suoi servitori. Ed entrambi, in effetti, costruiscono una relazione “da sogno”. Non appena uno dei due si addormenta, l’altro prende corpo e forma.

“Che me ne viene? sono appena partiti ed è tanto se mi ricordo di loro. Eppure esistono, meritano d'esistere, non c'è dubbio. Non torneranno più a smarrirsi nel labirinto della mia memoria. È stato un incidente senza importanza. Ci sono sogni che si snodano come incidenti senza importanza, cose che nella vita ad occhi aperti neppure se ne riterrebbe il ricordo, eppure ti occupano al mattino quando li afferri mentre si spingono in disordine contro la porta delle palpebre. Avrò sognato?”

Nella dimensione del sogno, Cidrolin trova un modo per frammentare la noia, che come una nebbia fitta avvolge la sua chiatta sulla Senna, e non gli permette di liberarsi dalla sua capacità di agire, di uscire dall’immobilismo della sua vita, e della sua epoca.

“Non è questione di coraggio. È che preferisco dormire. - E sognare. - Già: e sognare”.

Così ci risponderebbe, se dovessimo fare delle rimostranze alla sua vita ignava, indolente.
La traduzione di un’opera così complessa indusse Calvino a dover sudare le proverbiali sette camicie, per poter riprodurre giochi fonetici, sintattici e tra significati e significanti all’interno del romanzo stesso, nella necessità di dover tradurre brani classici della letteratura e della cultura francese citati dall’autore, di renderne il senso, ma anche di cercare una familiarità con i lettori italiani, per cercare rimandi alla loro cultura. L’opera faticosa di traduzione di un colosso della letteratura come Calvino, ben ci può far intendere la mole e la grandezza del lavoro di Queneau: se Calvino è Atlante, la Terra che si trova costretto a reggere, è proprio “I fiori blu”.
Come al solito, nelle nostre recensioni, non vorrei dilungarmi eccessivamente su trami e personaggi, e, sellato Sten, vorrei inerpicarmi su un sentiero ben più ripido, nonostante le rimostranze che il nostro amico equino potrebbe rivolgerci. Cerchiamo di interpretare il significato di quest’opera, nella misera idea di chi scrive, preso per mano e condotto al significato più profondo proprio da Calvino, il quale nella postfazione ci illustra la posizione al riguardo di Vivian Kogan.

“Stia attenta con le storie inventate. Rivelano cosa c'è sotto. Tal quale come i sogni.”

Come se fossimo la serva Lalice (altro personaggio assolutamente meraviglioso), ci facciamo avvertire da cosa nasconde il racconto dal nostro Duca Queneau.
A volte, risulta molto più semplice descrivere una situazione d’angoscia attraverso le parole dell’angoscia stessa, attraverso una atmosfera grigia, tendente ai più classici cliché. Il difficile è rendere una situazione angosciosa, sfumandola in una ironia irriverente e pervasiva, capace di infiltrarsi nella nostra anima in maniera sotterranea, proprio come il Duca che penetra le oscure grotte di Lascaux. E questa è l’operazione, a nostro umile avviso, che propone il nostro Queneau. Situazioni grottesche nel presente fanno da contraltare ad una letteratura del magnifico, proiettata in un passato magico, una Odissea burlesca che come un mare in tempesta si infrange sugli impassibile scogli del presente.
Già, il presente. Immobile. Impassibile. Astorico. La trama sembra essere figlia di Kojève, di cui Queneau era allievo. La chiave di lettura è quella di una vita condotta nell’immobilismo di un uomo prototipico del Novecento, incapace di agire e in grado di dare motivazione al suo agire solamente tramite il sotterfugio e banali attività, proietta la possibilità di azione tutta al passato, fino a quando questo non si presenta al proprio uscio. E la chiatta in mezzo alla Senna è un’Arca, con la quale sancire la definitiva e atarassica “uscita dalla storia”, ritornando al monte Ararat, uscendo dall’immobilismo dell’uomo non più storico, forse ritornando al passato originario dell’umanità, o a una gioacchiniana (è un caso che anche lo stesso Cidrolin, come del resto il Duca, porti il nome Gioacchino, come il frate calabrese?) “Età dello Spirito”, di piena consapevolezza dell’essere umano di se stesso.
Non è un significato semplice, a nascondersi dietro queste pagine di indimenticabile ironia. Possiamo solo concludere affermando di doverci inchinare alla grandezza di un autore spesso trascurato come Queneau. Ma non mi voglio dilungare oltre, Sten vi aspetta nella sua stalla! L’unico invito che vi si può fare è di cavalcarlo, di affrontare con lui ed il Duca un cammino di conoscenza, che racchiude la storia del mondo e dell’uomo stesso in solamente 21 capitoli di struggente perfezione tecnica e narrativa.
Quanto a noi, salutiamo il nostro equinesco amico con un sorriso amaro, consapevoli che raramente troveremo nuovamente dei compagni di viaggio così preziosi.

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