#parliamone - La peste nella letteratura



Visto che siamo tutti a casa (perché voi siete a casa, VERO?) a causa di una pandemia, cosa c’è di meglio di versare benzina sul fuoco parlando delle pandemie di peste nei libri attraverso i secoli?
Niente, lo so. Perciò, parliamone.

Ci sono diverse opere letterarie che parlano di peste.
In questa sede ne citerò 5.

I PROMESSI SPOSI

Tutti sappiano la storia de I promessi Sposi di Manzoni. Renzo e Lucia si vogliono sposare, ma un signorotto di paese glielo impedisce. Gira che ti rigira Renzo finisce a Milano (lo so, sono brava coi riassunti). È il 1630 e a Milano è arrivata la peste nera.
Il Manzoni riesce in due capitoli a descrivere in maniera superba il panico e la paura che si scatenò sull’Italia. Il terrore dei malati che erano arrivati a un numero tale che nemmeno i lazzaretti riuscivano a contenerli più e così erano costretti a morire in strada, lo sgomento dei sopravvissuto come Renzo (e quindi immuni) che senza più la paura del contagio potevano osservare la distruzione che il morbo aveva portato con sé.
Andando ad analizzare il testo si nota bene come le autorità e le persone avessero preso sottogamba il contagio, per poi farsi prendere dal panico e scappare in massa (chi poteva) per cercare di salvarsi, mentre il terrore dilagava.
C’è una scena molto iconica che, secondo me, racchiude appieno il senso della peste del romanzo. È il pezzo della madre di Cecilia. Per chi non lo sapesse, questo breve passaggio racconta di Renzo che assiste alla scena di una donna che porta in braccio una bambina di 9 anni: è ben pettinata e vestita, e chiaramente morta. L’ennesima vittima del contagio.
È la stessa madre che la adagia gentilmente sul carro e paga i monatti per convincerli a seppellire la bimba così com’è. Prima che se ne vadano, li avvisa che quella sera dovranno tornare a prendere sia lei, sia l’altra sua figlia, più piccola, viva ma morente.

Scendeva dalla soglia d'uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunciava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d'averne sparse tante; c'era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un'anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne' cuori.Portava essa in collo una bambina di forse nov'anni, morta; ma tutta ben accomodata, co' capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l'avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere su un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull'omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de'volti non n'avesse fatto fede, l'avrebbe detto chiaramente quello de' due ch'esprimeva ancora un sentimento.Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d'insolito rispetto, con un'esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, «no!» disse: «non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete». Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: «promettetemi di non levarle un filo d'intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo e di metterla sotto terra così». Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l'inaspettata ricompensa, s'affacendò a far un po' di posto sul carro per la morticina.La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come su un letto, ce l'accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l'ultime parole: «addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch'io pregherò per te e per gli altri». Poi, voltatasi di nuovo al monatto, «voi», disse, «passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola». Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s'affacciò alla finestra, tenendo in collo un'altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l'unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? Come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccio, al passar della falce che pareggia tutte l'erbe del prato.

È una scena drammatica e da sola vale tutta l’opera.

IL DECAMERON

Meno d’impatto, ma comunque interessante è il Decameron. Di per sé la storia non parla di peste, è una serie di novelle abbastanza semplici, leggere che però nascono da una cornice.
Questa cornice è la peste del 1348 a Firenze, quindi l’epidemia prima di quella raccontata da Manzoni. Boccaccio parla della peste per circa la metà dell’introduzione della sua opera, descrivendone i sintomi…
[...] nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi e alle femine parimente o nella anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, [...] le quali i volgari nominavan gavoccioli. E dalle due parti del corpo predette infra brieve spazio cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a venire: e da questo appresso s’incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o livide [...] E come il gavocciolo primieramente era stato e ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno. 
… e di come qualsiasi tipo di affetto umano, di sentimento cristiano venga offuscato dalla paura, la stessa paura che circa 300 anni dopo avvolgerà Milano.
In quest’ottica di panico, 10 ragazzi scappano nelle campagne per salvarsi e per passare il tempo decidono di raccontarsi delle novelle, da qui il Decameron.
Boccaccio non ha scritto un libro sulla peste, ciononostante l’ha descritta in modo vivido al punto che tutt’oggi possiamo immaginarne l’orrore.

LA MASCHERA DELLA MORTE ROSSA

Qui passiamo al famosissimo racconto di Edgar Allan Poe.
Fuori la peste (non la peste nera, ma il richiamo è evidente) infuria e devasta il mondo, ma al principe Prospero non interessa: per difendersi dalla morte e dalla noia, invita un migliaio di nobili nel suo castello e ci si barrica dentro.
Per 5 o 6 mesi festeggiano, incuranti della morte al di fuori del castello, fino a che il principe non decide di dare un ballo.
Durante questo ballo appare una figura misteriosa, vestita con un sudario impregnato di sangue, che vaga per le stanze della festa. I nobili scansano questa figura, spaventati, mentre il principe, furioso per quello che credeva uno scherzo di pessimo gusto, si avventa
sulla maschera cercando di ucciderla, ma cade a terra morto prima di raggiungerlo. I nobili cercano di togliere il costume alla figura, ma sotto vedono non esserci nulla.
È la morte rossa che è riuscita ad entrare nel castello. Ben presto gli ospiti cominciano a morire in massa e del palazzo pieno di vita non rimangono che corridoi vuoti.
Allora fu riconosciuta la presenza della morte rossa. Come un ladro, di notte essa era sopraggiunta. E tutti i convitati caddero uno ad uno nelle sale dell’orgia bagnate da una rugiada sanguinosa ed ognuno morì nella disperata positura in cui era caduto soccombendo. E la vita dell’orologio d’ebano si spense con quella dell’ultimo di quei personaggi festanti. Le fiamme dei treppiedi spirarono. E le tenebre, la rovina e la morte rossa distesero su tutte le cose il loro dominio sconfinato. 
È senza ombra di dubbio un racconto terribile, terrificante che riesce a racchiudere il senso d’impotenza e di ineluttabilità della morte. Puoi barricarti in un castello per mesi, ma la morte ti troverà lo stesso.

MONDO SENZA FINE

È il seguito de I pilastri della Terra, di Ken Follet.
La peste qui è parte integrante della storia. Mondo senza fine è ambientato in Inghilterra, ma la prima apparizione dell’epidemia si ha in Italia nel 1347, più precisamente a Firenze, è la stessa epidemia di cui parla Boccaccio. Ma questa volta non si scappa in campagna: uno dei protagonisti, Merthin, un abile costruttore espatriato dall’Inghilterra all’Italia per cercare fortuna, sposa Silvia e diventa padre di Laura, detta Lolla, fino a che la peste non distrugge tutta la sua famiglia, fatta eccezione per Lolla. È allora che Merthin decide di tornare in Inghilterra per ritrovare il suo primo amore e per realizzare il suo più grande sogno: costruire la torre più alta d’Inghilterra.
Ma la peste arriva anche a Kingsbride, paese natio di Merthin che li coglierà del tutto impreparati. I morti saranno troppi, i monaci, scappati dal priorato per salvarsi, moriranno quasi tutti, Londra verrà decimata, Kingsbridge subirà perdite incalcolabili, ma alla fine la peste scemerà.
Anni dopo, circa 10, si scoprirà un nuovo focolaio di peste a Londra e Kingsbridge ne verrà nuovamente terrorizzata.
Ho voluto inserire questo libro perché c’è un personaggio che mi ha colpita molto. Non mi ricordo il suo nome, era una donna sposata con figli, amava molto la sua famiglia e tutti loro vennero colpiti dalla prima ondata di peste. I suoi figli e suo marito morirono e lei, malata, desiderava solo morire per poterli raggiungere. Eppure si salvò. Riuscì a rifarsi una vita, si risposò ed ebbe un’altra figlia. Quando si tornò a parlare di peste, fu lei a salvare Kingsbridge: terrorizzata all’idea di perdere di nuovo la sua famiglia, mise in atto assieme ai membri del villaggio una quarantena di salvaguardia: nessuno sarebbe entrato o uscito da Kingsbridge che ne uscì indenne. Suo marito e sua figlia erano salvi.

LA CATTEDRALE DEL MARE

È il primo romanzo dell’avvocato Ildefonso Falcones. Si torna a parlare della peste di Manzoni e Follett, questa volta in Spagna. È il 1348 e Barcellona viene colpita dalla peste. Come sempre, la paura e la psicosi collettiva dominano, ma in questo caso a farne la spesa sono gli ebrei. Essi infatti vengono accusati di essere portatori di peste avvelenando l’acquedotto. L’unico motivo per cui i barcellonesi non si scatenano direttamente sul ghetto è che gli ebrei sono preziosi per il re, in quanto finanziatori del suo esercito. Ciò non toglie i numerosi linciaggi o tentativi a discapito degli ebrei.
Da sempre si sono cercati capri espiatori per giustificare o spiegare la peste e le sue conseguenze, in questo libro si torna al popolo più perseguitato della storia: gli ebrei. Perché quando sei impotente e vedi morire i tuoi cari, i tuoi amici, la tua città se non te in prima persona, è molto più facile prendersela coi deboli che guardare in faccia il proprio destino.

Queste sono le 5 opere da me scelte che parlano di peste.
La psicosi collettiva, il panico, il terrore, i tentativi di fuga che portano in giro il virus, la rabbia, la negazione sono tratti comuni più o meno a tutte le pandemie.
Che prima o poi l’umanità possa imparare?




3 commenti