L'inferno può essere la paura dell'ignoto, ma, se ad attanagliarci quotidianamente è un turbine psicotico scatenato dall'incapacità patologica di sbarcare il lunario, dai sogni frustrati di una professione (quella dello scrittore) che non dà da vivere e che lascia il posto a un lavoro più remunerativo ma noioso, da colleghi insopportabili, da una madre ossessiva e da una moglie adorante e sempre sul filo del rasoio, affrontare una nuova giornata all'insegna del grigiore rischia di essere una condanna. Jimmie Dillon, uno scrittore fallito e in gravi difficoltà economiche, sulla graticola in famiglia e insoddisfatto sul luogo di lavoro, proverà a superare traversie proibitive e un terribile blocco creativo in un'America poco propensa alla solidarietà e sempre più ossessionata dalla ricerca del tornaconto personale. Autobiografico quanto può esserlo un esordio, "Inferno sulla terra", scritto nel 1942, lascia intendere, attraverso le vicissitudini di Jimmie Dillon, di che pasta sia fatto Jim Thompson. Romanzo di profonda introspezione psicologica, "Inferno sulla terra" è una lucida analisi della banalità della disperazione e una spietata critica del sogno americano, la cui entità chimerica viene magistralmente messa alla berlina: Jimmie Dillon è l'uomo comune che ogni americano potrebbe essere e che non vorrebbe mai diventare.
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È a Jim
Thompson che dobbiamo questo libro: Inferno sulla terra, suo romanzo d’esordio
e, ragazzi, che esordio.
Il libro
parla di uno scrittore freelance, Jamie Dillon, nell’America del 1942 che,
spiantato, si trova ad accettare un lavoro che non gli piace in una fabbrica d’aerei.
Semplice
solo all’apparenza.
Quello che
ci appare davanti è in realtà un crudo, brutale romanzo sulla depressione, sulla
rabbia, sulla povertà, su un essere umano devoto all’autodistruzione e all’alcol
senza alcun potere per mettere freno a quella catastrofica via che ha
imboccato.
È un romanzo
sconvolgente, un enorme flusso di pensieri narrato in prima persona da Dillon,
il quale racconta cosa significhi ogni giorno fare i conti con una famiglia
troppo numerosa, con la fame, i conti, con il perenne
desiderio di bere e
dimenticare tutto, con il dolore che porta a sprecare un talento, talento
ampiamente dimostrato in passato.
Una mente
fina, quella di Dillon (o di Thompson), in grado di la narrazione scorrevole,
capace di entrarti dentro e riempirti di angoscia, di farti soffrire con Jimmie
e farti venire voglia di urlargli addosso.
Un romanzo
psicologico e introspettivo capace davvero di entrarti in testa, che racconta uno spaccato di
vita americana di cui non si sente parlare così spesso.
Riesci a
perderti completamente nella mente di Dillon, complici anche le numero
digressioni dalla strada originaria di cui spesso si rende colpevole,
digressioni che però non ti fanno perdere il filo del discorso, anzi, ti fanno
empatizzare ancora di più con lui, ti fanno capire meglio come lavora, come
vive, come dorme e quali sono i suoi incubi di una routine casalinga avvolta
dalle preoccupazioni.
I personaggi,
dai suoi colleghi ai suoi figli, sono tutti personaggi di spessore, chiari, ben
delineati e con qualcosa da dire nel bene e nel male.
Le abitudini
di una nazione per noi ora incomprensibili, come quella di comprare a credito,
di lavorare a pochi centesimi l’ora e sprovvisti di alcun sistema di sicurezza,
di dover usare una macchina da scrivere o scrivere direttamente a mano o di non
avere un sistema informatico a dirigere l’enorme mole di lavoro di una
gigantesca industria di aerei nell’America bellica, rendono l’ambientazione ben
circoscritta a un periodo preciso senza che questo sia mai davvero esplicitato.
Un ottimo uso dello show don’t tell.
Niente da
dire, lavoro eccellente.
Uno spaccato terribili di una vita tanto comune quanto spaventosa.
#prodottofornitoda #HarperCollinsItalia
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