Titolo: L'opera al nero
Autore: Marguerite Yourcenar
Data di Pubblicazione: 2020 (prima 1968)
Editore: Feltrinelli
“La carne, il
sangue, i visceri, tutto ciò che ha palpitato e vissuto gli ripugnavano...
poiché alla bestia duole morire come all'uomo, e gli dispiaceva digerire
agonie.”
Carnalità. Se dovessi
esprimere con un concetto ciò che la Yourcenar esprime nella sua opera, sarebbe
questa la prima parola che mi verrebbe in mente. Carnalità liberatoria,
sensuale, naturalmente giusta, da cui non ritrarsi e a cui cedere, contrapposta
alla carnale violenza che imbriglia la parola, che innaturalmente priva l’altro
della possibilità d’espressione, che costringe il libero a nascondersi.
“E' strano che
per noi cristiani, i cosiddetti disordini della carne costituiscano il male per
eccellenza, " disse Zenone meditando. "Nessuno punisce con rabbia e
disgusto la brutalità, l'efferatezza, la barbarie, l'ingiustizia. Non passerà
per la mente a nessuno domani di trovare oscene le brave persone che verranno a
guardare i miei contorcimenti tra le fiamme.”
Se “L’opera al nero”
fosse una statua, sarebbe il “Ratto di Proserpina” del Bernini, in tutta la sua
sensuale carica disperata. E facciamo caso che l’opera dello scultore e
architetto e pittore del Seicento fosse quasi contemporanea di Zenone,
l’alchimista e medico e filosofo e ingegnere cinquecentesco protagonista del
nostro romanzo.
“Prendo Dio e i
tempi come vengono, anche se avrei preferito vivere nel secolo in cui si
adorava Venere.”
Proserpina, Venere.
Dagli Inferi all’Olimpo, o il contrario. Un classicismo che si innalza da un
passato Rinascimentali che vive nelle forme del Bernini e che si avverte in
quei legami che Zenone ha con l’Italia. Il padre, un fiorentino, gli incipit
lasciati alle parole di Pico della Mirandola e Giuliano de’Medici. E
soffermiamoci un attimo sulle storie, immerse nella Storia. Perché un romanzo
storico come quello della Yourcenar sembra precorrerei i tempi, sembra
concepire che per scrivere di storia, si deve conoscere e leggere la Storia,
con la S maiuscola. Sembra che l’uso della fonte, la conoscenza del periodo,
sia fondamentale per la nostra Autrice. Sì, con la A maiuscola anche lei,
perché compito e dovere dell’auctor e di “augere”; aumentare la
conoscenza del suo pubblico, attraverso lo scritto “movere, docere et
delectare”, come ci avrebbe suggerito Cicerone.
Allora “docere”,
insegnare. Traspare dalle pagine dell’autrice una conoscenza della filosofia
cinquecentesca, una fascinazione al riguardo di quel mondo esoterico e mistico
che aleggia, nell’immaginario collettivo, sul XVI secolo. Forse non sarà
conoscenza storica (vedremo poi), ma la scrittura della belga incarna con forza
tra le pagine uno storicismo, una interpretazione brutale delle guerre di
religione in Europa, delle ambiguità con cui, da una parte e dall’altra, il
cattolico interpreta il protestante e viceversa. Il pensiero corre
immediatamente a un’altra grande incarnazione, quella poliedrica risposta
all’interpretazione di una fonte cinquecentesca, attraverso la sua ricostruzione
romantica: il Kohlhaas di Marco Baliani. E come per l’attore italiano,
anche per la Yourcenar il ciclo degli eventi sembra avere il suono degli
zoccoli di un cavallo, ora uno scalpiccio leggero, ora una corsa furiosa sulle
strade lastricate, tra Belgio e Germania. E come per la Yourcenar, se dovesse
capitarvi di ammirarlo, anche per Baliani il colore predominante sulla scena è
il nero.
Questo nero è un
manto che ci avvolge, un pozzo che ci trascina nelle sue profondità, un sudario
ci opprime tra le strade di Bruges, tra le rovine fumanti di cadaveri della Münster
anabattista assediata. E ancora qui il docere: è il 1534, in un mondo
terribilmente tangibile, reale, che appartiene al nostro passato quanto, nella
nostra interpretazione, al nostro presente. Qui, però, si può introdurre il movere,
una tensione sentimentale che a volte ci atterrisce, che non ci piega verso
una naturale simpatia per alcuni personaggi, salvo per rivalutarli all’ultimo.
Eppure questa simpatia, in senso greco, accompagna il lettore per mano quando a
parlare è di Zenone. Si ha sempre la sensazione di essere troppo umani, come
lui. Di cadere, come lui, nelle debolezze della carne, nonostante tutto. Il
protagonista quasi si nasconde tra le pagine, come un cappuccio di inchiostro
che ammanta una Verità troppo grande per essere disvelata.
“La castità, che da giovane aveva considerato una
superstizione da combattere, gli appariva ora uno dei volti della serenità:
assaporava la fredda conoscenza che si ha degli esseri quando non li
desideriamo più.”
E dove è, allora, il delectare?
Con cosa ci divertiamo, noi, in questa angoscia esistenziale? Oserei dire, con
lo stile della scrittrice. Rotondo, pieno, corposo. Oserei dire fisico, anche
quando di metafisico si tratta. Perché questo
metafisico è, soprattutto, immediatamente fisico, meccanicistico:
"Non cesserò mai di stupirmi che questa carne
sostenuta dalle sue vertebre, questo tronco congiunto alla testa dall'istmo del
collo, con le sue membra simmetricamente disposte intorno, contengano e forse
producano uno spirito che si serve dei miei occhi e dei miei movimenti per
palpare... Ne conosco i limiti, e so che il tempo non gli mancherà per andar
più lontano, e la forza, se per caso il tempo gli fosse concesso. Ma esso è, e,
in questo momento, è colui che È. So che esso sbaglia, erra, interpreta spesso a
torto la lezione che gli impartisce il mondo, ma so anche che porta in sé di
che scoprire e talvolta rettificare i propri errori.”
È una abbuffata di suoni, di passioni, di sensazioni. Tuttavia, è anche
molto di più. Nella storia di Zenone si rivede anche un altro modo di trattare
la Storia, con le dovute differenze e proporzioni la storia dell’alchimista
belga sembra essere la costruzione narrativa di un modo di “fare storia” spesso
trascurato, eppure innovativo. Nel ’68 abbiamo già una prima operazione di microstoria,
la quale prenderà forma solo otto anni dopo ne “Il formaggio e i vermi”, saggio
storico di Carlo Ginzburg. E non sia un altro caso che Menocchio, il mugnaio
eretico, nasca proprio negli anni della repubblica di Münster, e non sia un caso che le sue teorie prendano
forza da una concezione panteista.
La Yourcenar con il
suo romanzo, a nostro avviso, narra la Storia attraverso una storia, ci porta
lontani dal nostro presente, non dimenticando, però, di presentizzare il
passato, di portare quegli elementi sconvolgenti del ’68, occultandoli nella
propria scrittura. Non è solo il presente, tuttavia, ad essere nascosto. Il
passato rivive in Zenone: egli è in parte Erasmo da Rotterdam, di cui ne
condivide l’educazione giovanile, in parte è Paracelso, di cui condivide invece
l’iniziazione alchemica, in parte quella di veri medici alla corte dei re
scandinavi. Nelle sue teorie è ovviamente Bruno e Campanella. E gli altri
personaggi, uno per uno, sono ombre di personaggi storici, proiettate dalla
luce rischiaratrice della mente di una scrittrice che, nella sua operazione
sulle fonti e con le fonti, è anche, in un certo senso, una storica.
È per questo che,
chiunque sia semplicemente appassionato di storia, dovrebbe leggerla e
rileggerla, per comprendere con quale maniacale precisione si deve ricostruire
una immagine, una vicenda. Notevole e fondamentale è la nota dell’autrice
stessa che, come se fosse un saggio scientifico, cita le sue fonti, le
esplicita, e fa capire al lettore dove e come ha operato per rendere il tutto
anche fiction. Fa comprendere come l’operazione dello storico non sia
solo quella di raccontare di morti, di spettri lontani, ma di rievocare la
corporeità e la fisicità di esseri umani che hanno occupato uno spazio ed un
tempo non poi così lontani dal nostro. Lo storico, ci avrebbe suggerito Aby
Warburg, è un mistagogo, una connessione tra vivi e morti, una figura quasi
esoterica, proprio come il nostro Zenone.
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